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Insanity's Crescendo
(2.000) // (Pg-13. Angst. The Black Parade AU.)
Bob Bryar/Frank Iero
'Francesco (che gli amici chiamano Frank in sua presenza e Il Corto quando invece non è nei paraggi) viene reclutato nel modo più semplice, più diretto possibile: tramite un annuncio apparso in bacheca, quella appesa vicino alla segreteria.'
Scritto per il MadTea Party @
fanfic_italia (qui) + #96 Scelta libera 'AU' @
fanfic100_ita. Prompt 'suggestione, 'la verità è là fuori' per
nejem. Il titolo è stato rubato ai Dark Tranquillity. ♥ a
tina_nocturne &
veecious per la pazienza, ♥ alla seconda a
veecious per la betatura lampo.
**

*
Francesco (che gli amici chiamano Frank in sua presenza e Il Corto quando invece non è nei paraggi) viene reclutato nel modo più semplice, più diretto possibile: tramite un annuncio apparso in bacheca, quella appesa vicino alla segreteria.
*
‘Cercasi comparse per video musicale.’
L’annuncio è scritto su un foglio di quaderno con i bordi già un po’ strappati, sebbene sia lì da poco meno di una giornata. Ieri mattina non c’era, Francesco ne è sicuro: ha l’abitudine di controllare la bacheca quando viene in facoltà, dato che è un ottimo modo per trovare qualche lavoretto. L’ultima volta ha consegnato pizze per un mese, quella ancora prima ha trasportato mobili da un capo all’altro della città; ora, a quanto pare, apparirà in un video.
Non male come prospettiva.
(Non che sia interessato al lato artistico della faccenda. Ciò che davvero lo attira è la novità in sé, il fatto di poter dedicare un po’ del suo tempo a qualcosa di nuovo. Nella vita di Francesco c’è ben poco di fisso: lui è un tipo che si stufa facilmente.)
Dopo aver tirato fuori una penna dalla tasca, Francesco strappa un angolo dell’annuncio e si appunta il numero di cellulare. Una volta arrivato a casa, lo mostrerà a Roberto: pratico di natura, il suo coinquilino non si lascerà di certo sfuggire l’occasione per rimediare qualche soldo extra.
*
L’appartamento che Francesco divide con Roberto si trova a pochi isolati dall’università. È minuscolo, non molto ordinato né molto pulito, ma a nessuno dei due ciò sembra importare granché. Gli aspetti fondamentali (un tetto che non goccioli loro in testa quando piove, un letto su cui poter dormire e un impianto di riscaldamento che riscaldi quando serve) sono a posto, non hanno davvero bisogno d’altro.
Anche perché tanto non se lo possono permettere.
*
Quando Francesco rientra, Roberto sta osservando con occhio critico il contenuto di un barattolo di yogurt.
“Buttalo via,” gli consiglia, dopo aver scaricato senza troppe cerimonie la spesa sul tavolo, “credo sia scaduto da due settimane.”
Roberto non replica subito, perciò Francesco gli gira intorno (deve farlo se vuole mettere il latte in frigo) e gli dà una leggera stretta su una spalla. Niente bacio: ci sono dei muti, consensuali accordi tra di loro, e uno di questi confina i gesti d’affetto all’interno della camera da letto.
“Forse addirittura due e mezzo.”
“Capisco. Lasciare la roba andata a male nel frigo è il nuovo trend del momento?”
Non c’è traccia di animosità nella domanda di Roberto; Francesco fa un vago gesto con la mano.
“Pignolo. Perché non controlli le date, invece di lamentarti? Comunque ringraziami: ho trovato un nuovo lavoro e stavolta puoi venire anche tu.”
“Io un lavoro ce l’ho già,” obietta pacificamente Roberto. Il discorso gli interessa però, il modo in cui ha raddrizzato la schiena e il fatto che abbia passato sotto silenzio l’ultima sua frase (“Che significa che posso venire anch’io? È un lavoro o un appuntamento?”) hanno contribuito a tradirlo.
Francesco chiude la porta del frigo e sorride.
*
Dopo aver posato il cellulare sul letto, Francesco solleva le braccia sopra la testa, stiracchiandosi.
“Domani pomeriggio alle tre,” annuncia poi con uno sbadiglio, prima di lasciarsi ricadere con la schiena contro il cuscino. “Non è neppure lontanissimo, possiamo prendere la metro. Si tratta di poche fermate.”
“A-ha.”
Senza elaborare ulteriormente, Roberto inizia a tirare il lenzuolo verso di sé. Un brivido gli ha appena attraversato la spina dorsale; strano, visto che la serata è davvero calda.
*
La ragazza che siede dietro il bancone (‘Jamia’, stando al badge appuntato sulla camicetta) ha l’aria pensierosa. Probabilmente è solo stanca, riflette Francesco nell’avvicinarsi. Negli ultimi giorni la città è stata colpita da una grossa ondata di caldo, particolare che sembra avere effetti curiosi sulla maggior parte della gente. È come se qualcosa sia in procinto di succedere, qualcosa di grosso, e che tutta Roma stia trattenendo il fiato, in attesa.
“I vostri nomi, prego.”
“Iero,” dice Francesco con un sorriso, “io sono Francesco Iero, mentre lui è Roberto Briara. Siamo qui per il casting, per il video che devono girare. Ho trovato un annuncio in università, ho chiamato e mi hanno detto di passare qui per-”
“Certo, certo, la Parata,” lo interrompe Jamia. Senza neppure alzare lo sguardo, la ragazza scrive qualcosa sui fogli che ha di fronte, poi allunga il braccio in direzione del corridoio.
“Seguite le indicazioni, non potete sbagliare. Buona fortuna.”
“Oh. Grazie.”
Francesco afferra Roberto per la manica e lo tira verso di sé, ignorando il ‘simpatica, vero?’ che l’altro ha sussurrato a mezza bocca. Non sono certo lì per fare amicizia
“Dai, andiamo.”
*
Roberto si sistema la giacca, dando l’ennesima tirata all’orlo. Non è brutta come uniforme, né esageratamente scomoda, però gli dà fastidio lo stesso. Se potesse, se la toglierebbe subito. Se potesse, prenderebbe Francesco e se ne andrebbe via di lì, e ‘fanculo tutto, soldi, lavoro, perfino la prospettiva di venire richiamati per altri video. Il regista ha assicurato loro che capita spesso di utilizzare le stesse comparse per differenti filmati, ma Roberto ha già perso interesse in quella proposta.
Il suo non è un sentimento razionale, dato che non è successo nulla per giustificare una simile reazione. Assolutamente nulla. Eppure…
A disagio, Roberto si guarda intorno. C’è un sacco di gente in costume, già pronta per iniziare le riprese; gli piacerebbe poter attaccare discorso con qualcuno, giusto per distrarsi un po’ e farla finita con le seghe mentali, ma a quanto pare, nessuno sembra essere in vena di chiacchierare. Sono tutti piuttosto silenziosi, uomini e donne vestiti in bianco e nero che passeggiano per il set, il volto nascosto dietro maschere di cartapesta.
Ora che ci fa caso, lui e Francesco sono gli unici a non averne una.
“Roberto!”
Quello di Francesco è un sibilo, seguito da uno strattone alla manica della giacca: se Roberto non gli mostra il medio è solo per l’urgenza che riconosce nella voce dell’altro.
“Cosa?”
“Là, là, sul carro! Cazzo, guarda!”
Socchiudendo gli occhi, Roberto fa come gli è stato chiesto, seguendo con lo sguardo il dito puntato di Francesco. E si ritrova ad osservare se stesso.
*
Ci sono loro due sul carro. Suona fuori di testa, sì, ma ci sono le copie perfette di entrambi proprio lì, a pochi metri, uno seduto dietro la batteria e l’altro con in mano una chitarra. I loro sosia (perché di questo deve trattarsi, ed è una stronzata, uno stronzo scherzo del cazzo) non sono soli, ci sono anche altre persone, visi che paiono vagamente familiari. Né Francesco né Roberto si soffermano su di essi però, troppo presi a fissare i due cloni. Perfino i vestiti che indossano sono identici.
*
Francesco è il primo a riaversi dallo shock.
“Andiamo,” ingiunge, afferrando Roberto per il polso e fendendo la folla che continua a passeggiare, imperturbata.
*
Ora che sono saliti sul carro, dei sosia non c’è più traccia. Svaniti, come se non fossero mai stati lì: la piattaforma è deserta, fatta eccezione per strumenti abbandonati sulle assi di legno, mezzi nascosti da petali bianchi e neri.
Per un attimo, Francesco crede di essersi immaginato tutto. Sul set ci saranno almeno venticinque gradi, è piuttosto plausibile l’ipotesi che il caldo gli abbia dato alla testa.
“Roberto?”
Francesco fa una smorfia al sentire il suono della sua stessa voce; è come se arrivasse da molto lontano, o come se avesse le orecchie tappate con l’ovatta. Si schiarisce la gola, poi riprova.
“Roberto?”
“Bob, Frank.”
Francesco si volta, corrucciato. La donna che l’ha interrotto ha il viso coperto da una maschera antigas, i capelli spettinati, tanto sporchi quanto il suo costume.
“Sono Mother War. Vi stavamo aspettando, voi siete i primi. Benvenuti, benvenuti.”
“Che sta succedendo? Che significa tutto questo?”
La voce di Roberto è colma di rabbia, un sentimento che in realtà non prova. Dentro di sé, Roberto è confuso e leggermente spaventato, due sensazioni che la donna pare percepire, almeno a giudicare dal tono sommesso della sua replica.
“Non devi aver paura, Bob. Il significato è racchiuso nel fatto che siete giunti qui di vostra spontanea volontà, compiendo una scelta, e che ora tutto questo vi appartiene. Siete parte della Black Parade, lei vi ha chiamato e voi avete risposto. Prendete i vostri posti sul carro.”
“Io mi chiamo-”
“Robert Bryar. Bob. Dimenticati di Roberto, lui non esiste più, non è mai esistito. Ora c’è solo Bob, il batterista della Black Parade.”
Roberto stringe i pugni, fa un passo in avanti. Non avrebbe mai pensato di colpire una donna prima d’ora, ma le mani gli prudono, la tentazione è forte e Francesco… Francesco sta fissando la chitarra posata per terra.
“Farnetichi,” ringhia, facendolo sussultare e distogliere velocemente lo sguardo, “non c’è nulla di vero, io so benissimo chi sono. Noi ce ne andiamo; continuate pure a divertirvi, ma senza di noi.”
Mother War non ribatte. Si limita a stringersi nelle spalle, osservandoli mentre scendono dal carro e si allontanano.
*
Francesco e Roberto girano per ore in quella landa desolata (“È uno studio, un cazzo di studio cinematografico!”), alla ricerca dell’uscita. Ci provano seguendo tutte le direzioni, voltando le spalle al carro, precedendolo, allontanandosi da entrambi i lati; il risultato però non cambia. Presto o tardi, mentre petali bianchi e neri continuano a cadere dal cielo (“Dal soffitto, Frank… Francesco, non hai visto l’intelaiatura di legno mentre entravamo?"), i due si ritrovano sempre al punto di partenza, riuniti a quella folla da cui stanno tentando di allontanarsi.
E ogni volta, Mother War è lì, in paziente attesa davanti al carro. La donna non parla, non fa domande né si offre di ripetere loro quanto già spiegato; si limita a restarsene lì, reggendo il tubo della maschera in mano. È come se stesse aspettando il momento della loro resa, il momento in cui rabbia e testardaggine saranno pronte a cedere il posto alla rassegnazione.
Non ha fretta, Mother War. Lei ha tutto il tempo che le serve a disposizione.
*
Fa freddo adesso, lo stesso freddo intenso che ci si aspetterebbe di sentire a dicembre inoltrato. Roberto sa che là fuori, da qualche parte (“Nel mondo reale, Frank, quello che vedi è tutto falso”) è ancora luglio, ma qui le stagioni sembrano non valere nulla. Qui la temperatura è bassa e i petali assomigliano sempre di più a fiocchi di neve.
Francesco è appoggiato contro di lui, le braccia strette attorno al corpo. Non c’è neppure bisogno che tenda l’orecchio per sentire il ticchettio prodotto dai loro denti e mentre lo stringe a sé in un istintivo tentativo di scaldarlo, Roberto si domanda chi dei due stia facendo più rumore.
*
È notte inoltrata (o almeno così suppone Roberto; è difficile riuscire a stimare l’ora in quel luogo, per via della caligine che sembra coprire il sole perennemente, quella caligine che all’inizio gli era parsa solo luce di riflettori offuscata da filtri) quando si siedono su un mucchio di legna buttata a lato della strada. Francesco ha trovato una vecchia coperta tra i rifiuti e l’ha tagliata in due, usando il coltellino agganciato alla cintura dell’uniforme; il tessuto però è talmente consunto da non fornire il benché minimo calore.
Tremando, Francesco si passa un dito sulle labbra violacee.
“Torniamo al carro.”
“Frank…”
“Bob, lì è caldo. Lo sai anche tu. Lì possiamo riposarci, riprendere le forze e poi…”
“E poi?” lo incalza Roberto, massaggiandosi le dita gelate.
Francesco scuote la testa. È stanco, vuole sdraiarsi e dormire, non continuare a discutere.
“Cercare una via d’uscita. Che altro? Suonare, forse?”
*
“E adesso?”
L’espressione di Roberto (Bob, sembra riprenderlo pazientemente Mother War, voltandosi verso di lui) è neutra, così come la sua voce. Stringe le bacchette in mano, mentre Frank finisce di accordare la chitarra.
“Che succede adesso?”
“Dobbiamo aspettare gli altri.”
*
Lontano, un telefono inizia a squillare. Il più giovane dei due fratelli Strada, Michele, posa il cucchiaino, si alza e va a rispondere: chissà, magari è per quell’annuncio a cui ha risposto due giorni prima.
(2.000) // (Pg-13. Angst. The Black Parade AU.)
Bob Bryar/Frank Iero
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Francesco (che gli amici chiamano Frank in sua presenza e Il Corto quando invece non è nei paraggi) viene reclutato nel modo più semplice, più diretto possibile: tramite un annuncio apparso in bacheca, quella appesa vicino alla segreteria.
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‘Cercasi comparse per video musicale.’
L’annuncio è scritto su un foglio di quaderno con i bordi già un po’ strappati, sebbene sia lì da poco meno di una giornata. Ieri mattina non c’era, Francesco ne è sicuro: ha l’abitudine di controllare la bacheca quando viene in facoltà, dato che è un ottimo modo per trovare qualche lavoretto. L’ultima volta ha consegnato pizze per un mese, quella ancora prima ha trasportato mobili da un capo all’altro della città; ora, a quanto pare, apparirà in un video.
Non male come prospettiva.
(Non che sia interessato al lato artistico della faccenda. Ciò che davvero lo attira è la novità in sé, il fatto di poter dedicare un po’ del suo tempo a qualcosa di nuovo. Nella vita di Francesco c’è ben poco di fisso: lui è un tipo che si stufa facilmente.)
Dopo aver tirato fuori una penna dalla tasca, Francesco strappa un angolo dell’annuncio e si appunta il numero di cellulare. Una volta arrivato a casa, lo mostrerà a Roberto: pratico di natura, il suo coinquilino non si lascerà di certo sfuggire l’occasione per rimediare qualche soldo extra.
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L’appartamento che Francesco divide con Roberto si trova a pochi isolati dall’università. È minuscolo, non molto ordinato né molto pulito, ma a nessuno dei due ciò sembra importare granché. Gli aspetti fondamentali (un tetto che non goccioli loro in testa quando piove, un letto su cui poter dormire e un impianto di riscaldamento che riscaldi quando serve) sono a posto, non hanno davvero bisogno d’altro.
Anche perché tanto non se lo possono permettere.
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Quando Francesco rientra, Roberto sta osservando con occhio critico il contenuto di un barattolo di yogurt.
“Buttalo via,” gli consiglia, dopo aver scaricato senza troppe cerimonie la spesa sul tavolo, “credo sia scaduto da due settimane.”
Roberto non replica subito, perciò Francesco gli gira intorno (deve farlo se vuole mettere il latte in frigo) e gli dà una leggera stretta su una spalla. Niente bacio: ci sono dei muti, consensuali accordi tra di loro, e uno di questi confina i gesti d’affetto all’interno della camera da letto.
“Forse addirittura due e mezzo.”
“Capisco. Lasciare la roba andata a male nel frigo è il nuovo trend del momento?”
Non c’è traccia di animosità nella domanda di Roberto; Francesco fa un vago gesto con la mano.
“Pignolo. Perché non controlli le date, invece di lamentarti? Comunque ringraziami: ho trovato un nuovo lavoro e stavolta puoi venire anche tu.”
“Io un lavoro ce l’ho già,” obietta pacificamente Roberto. Il discorso gli interessa però, il modo in cui ha raddrizzato la schiena e il fatto che abbia passato sotto silenzio l’ultima sua frase (“Che significa che posso venire anch’io? È un lavoro o un appuntamento?”) hanno contribuito a tradirlo.
Francesco chiude la porta del frigo e sorride.
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Dopo aver posato il cellulare sul letto, Francesco solleva le braccia sopra la testa, stiracchiandosi.
“Domani pomeriggio alle tre,” annuncia poi con uno sbadiglio, prima di lasciarsi ricadere con la schiena contro il cuscino. “Non è neppure lontanissimo, possiamo prendere la metro. Si tratta di poche fermate.”
“A-ha.”
Senza elaborare ulteriormente, Roberto inizia a tirare il lenzuolo verso di sé. Un brivido gli ha appena attraversato la spina dorsale; strano, visto che la serata è davvero calda.
*
La ragazza che siede dietro il bancone (‘Jamia’, stando al badge appuntato sulla camicetta) ha l’aria pensierosa. Probabilmente è solo stanca, riflette Francesco nell’avvicinarsi. Negli ultimi giorni la città è stata colpita da una grossa ondata di caldo, particolare che sembra avere effetti curiosi sulla maggior parte della gente. È come se qualcosa sia in procinto di succedere, qualcosa di grosso, e che tutta Roma stia trattenendo il fiato, in attesa.
“I vostri nomi, prego.”
“Iero,” dice Francesco con un sorriso, “io sono Francesco Iero, mentre lui è Roberto Briara. Siamo qui per il casting, per il video che devono girare. Ho trovato un annuncio in università, ho chiamato e mi hanno detto di passare qui per-”
“Certo, certo, la Parata,” lo interrompe Jamia. Senza neppure alzare lo sguardo, la ragazza scrive qualcosa sui fogli che ha di fronte, poi allunga il braccio in direzione del corridoio.
“Seguite le indicazioni, non potete sbagliare. Buona fortuna.”
“Oh. Grazie.”
Francesco afferra Roberto per la manica e lo tira verso di sé, ignorando il ‘simpatica, vero?’ che l’altro ha sussurrato a mezza bocca. Non sono certo lì per fare amicizia
“Dai, andiamo.”
*
Roberto si sistema la giacca, dando l’ennesima tirata all’orlo. Non è brutta come uniforme, né esageratamente scomoda, però gli dà fastidio lo stesso. Se potesse, se la toglierebbe subito. Se potesse, prenderebbe Francesco e se ne andrebbe via di lì, e ‘fanculo tutto, soldi, lavoro, perfino la prospettiva di venire richiamati per altri video. Il regista ha assicurato loro che capita spesso di utilizzare le stesse comparse per differenti filmati, ma Roberto ha già perso interesse in quella proposta.
Il suo non è un sentimento razionale, dato che non è successo nulla per giustificare una simile reazione. Assolutamente nulla. Eppure…
A disagio, Roberto si guarda intorno. C’è un sacco di gente in costume, già pronta per iniziare le riprese; gli piacerebbe poter attaccare discorso con qualcuno, giusto per distrarsi un po’ e farla finita con le seghe mentali, ma a quanto pare, nessuno sembra essere in vena di chiacchierare. Sono tutti piuttosto silenziosi, uomini e donne vestiti in bianco e nero che passeggiano per il set, il volto nascosto dietro maschere di cartapesta.
Ora che ci fa caso, lui e Francesco sono gli unici a non averne una.
“Roberto!”
Quello di Francesco è un sibilo, seguito da uno strattone alla manica della giacca: se Roberto non gli mostra il medio è solo per l’urgenza che riconosce nella voce dell’altro.
“Cosa?”
“Là, là, sul carro! Cazzo, guarda!”
Socchiudendo gli occhi, Roberto fa come gli è stato chiesto, seguendo con lo sguardo il dito puntato di Francesco. E si ritrova ad osservare se stesso.
*
Ci sono loro due sul carro. Suona fuori di testa, sì, ma ci sono le copie perfette di entrambi proprio lì, a pochi metri, uno seduto dietro la batteria e l’altro con in mano una chitarra. I loro sosia (perché di questo deve trattarsi, ed è una stronzata, uno stronzo scherzo del cazzo) non sono soli, ci sono anche altre persone, visi che paiono vagamente familiari. Né Francesco né Roberto si soffermano su di essi però, troppo presi a fissare i due cloni. Perfino i vestiti che indossano sono identici.
*
Francesco è il primo a riaversi dallo shock.
“Andiamo,” ingiunge, afferrando Roberto per il polso e fendendo la folla che continua a passeggiare, imperturbata.
*
Ora che sono saliti sul carro, dei sosia non c’è più traccia. Svaniti, come se non fossero mai stati lì: la piattaforma è deserta, fatta eccezione per strumenti abbandonati sulle assi di legno, mezzi nascosti da petali bianchi e neri.
Per un attimo, Francesco crede di essersi immaginato tutto. Sul set ci saranno almeno venticinque gradi, è piuttosto plausibile l’ipotesi che il caldo gli abbia dato alla testa.
“Roberto?”
Francesco fa una smorfia al sentire il suono della sua stessa voce; è come se arrivasse da molto lontano, o come se avesse le orecchie tappate con l’ovatta. Si schiarisce la gola, poi riprova.
“Roberto?”
“Bob, Frank.”
Francesco si volta, corrucciato. La donna che l’ha interrotto ha il viso coperto da una maschera antigas, i capelli spettinati, tanto sporchi quanto il suo costume.
“Sono Mother War. Vi stavamo aspettando, voi siete i primi. Benvenuti, benvenuti.”
“Che sta succedendo? Che significa tutto questo?”
La voce di Roberto è colma di rabbia, un sentimento che in realtà non prova. Dentro di sé, Roberto è confuso e leggermente spaventato, due sensazioni che la donna pare percepire, almeno a giudicare dal tono sommesso della sua replica.
“Non devi aver paura, Bob. Il significato è racchiuso nel fatto che siete giunti qui di vostra spontanea volontà, compiendo una scelta, e che ora tutto questo vi appartiene. Siete parte della Black Parade, lei vi ha chiamato e voi avete risposto. Prendete i vostri posti sul carro.”
“Io mi chiamo-”
“Robert Bryar. Bob. Dimenticati di Roberto, lui non esiste più, non è mai esistito. Ora c’è solo Bob, il batterista della Black Parade.”
Roberto stringe i pugni, fa un passo in avanti. Non avrebbe mai pensato di colpire una donna prima d’ora, ma le mani gli prudono, la tentazione è forte e Francesco… Francesco sta fissando la chitarra posata per terra.
“Farnetichi,” ringhia, facendolo sussultare e distogliere velocemente lo sguardo, “non c’è nulla di vero, io so benissimo chi sono. Noi ce ne andiamo; continuate pure a divertirvi, ma senza di noi.”
Mother War non ribatte. Si limita a stringersi nelle spalle, osservandoli mentre scendono dal carro e si allontanano.
*
Francesco e Roberto girano per ore in quella landa desolata (“È uno studio, un cazzo di studio cinematografico!”), alla ricerca dell’uscita. Ci provano seguendo tutte le direzioni, voltando le spalle al carro, precedendolo, allontanandosi da entrambi i lati; il risultato però non cambia. Presto o tardi, mentre petali bianchi e neri continuano a cadere dal cielo (“Dal soffitto, Frank… Francesco, non hai visto l’intelaiatura di legno mentre entravamo?"), i due si ritrovano sempre al punto di partenza, riuniti a quella folla da cui stanno tentando di allontanarsi.
E ogni volta, Mother War è lì, in paziente attesa davanti al carro. La donna non parla, non fa domande né si offre di ripetere loro quanto già spiegato; si limita a restarsene lì, reggendo il tubo della maschera in mano. È come se stesse aspettando il momento della loro resa, il momento in cui rabbia e testardaggine saranno pronte a cedere il posto alla rassegnazione.
Non ha fretta, Mother War. Lei ha tutto il tempo che le serve a disposizione.
*
Fa freddo adesso, lo stesso freddo intenso che ci si aspetterebbe di sentire a dicembre inoltrato. Roberto sa che là fuori, da qualche parte (“Nel mondo reale, Frank, quello che vedi è tutto falso”) è ancora luglio, ma qui le stagioni sembrano non valere nulla. Qui la temperatura è bassa e i petali assomigliano sempre di più a fiocchi di neve.
Francesco è appoggiato contro di lui, le braccia strette attorno al corpo. Non c’è neppure bisogno che tenda l’orecchio per sentire il ticchettio prodotto dai loro denti e mentre lo stringe a sé in un istintivo tentativo di scaldarlo, Roberto si domanda chi dei due stia facendo più rumore.
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È notte inoltrata (o almeno così suppone Roberto; è difficile riuscire a stimare l’ora in quel luogo, per via della caligine che sembra coprire il sole perennemente, quella caligine che all’inizio gli era parsa solo luce di riflettori offuscata da filtri) quando si siedono su un mucchio di legna buttata a lato della strada. Francesco ha trovato una vecchia coperta tra i rifiuti e l’ha tagliata in due, usando il coltellino agganciato alla cintura dell’uniforme; il tessuto però è talmente consunto da non fornire il benché minimo calore.
Tremando, Francesco si passa un dito sulle labbra violacee.
“Torniamo al carro.”
“Frank…”
“Bob, lì è caldo. Lo sai anche tu. Lì possiamo riposarci, riprendere le forze e poi…”
“E poi?” lo incalza Roberto, massaggiandosi le dita gelate.
Francesco scuote la testa. È stanco, vuole sdraiarsi e dormire, non continuare a discutere.
“Cercare una via d’uscita. Che altro? Suonare, forse?”
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“E adesso?”
L’espressione di Roberto (Bob, sembra riprenderlo pazientemente Mother War, voltandosi verso di lui) è neutra, così come la sua voce. Stringe le bacchette in mano, mentre Frank finisce di accordare la chitarra.
“Che succede adesso?”
“Dobbiamo aspettare gli altri.”
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Lontano, un telefono inizia a squillare. Il più giovane dei due fratelli Strada, Michele, posa il cucchiaino, si alza e va a rispondere: chissà, magari è per quell’annuncio a cui ha risposto due giorni prima.